Tuesday, April 12, 2011

Don't be evil

Ovvio, noi esseri umani tendiamo sempre ad estremizzare. O sei col bene o sei col male. Ma sicuramente non siamo più nel milleottocento con i racconti dei cavalieri senza macchia e senza paura e dei cattivi così cattivi che ridevano sempre. Il mondo è a toni di grigio, e riesce incredibile pensare che abbiamo avuto nella nostra storia la pretesa di classificarlo in compartimenti stagni.
Non che ci sia nulla di male, sia chiaro: la stereotipizzazione è una caratteristica intrinseca del ragionamento, un'approssimazione necessaria per quelle miliardi di decisioni che compiamo nel corso della giornata. Lo fanno anche gli animali, giù nella scala evolutiva fino ai rettili: la reazione che si attiva spontaneamente nel gestire una situazione è sempre una valutazione positiva o negativa dello sato delle cose: un processo automatico. Approssimiamo per non dover perdere troppo tempo sui dettagli, per non dover considerare tutte le sfumature. Ci sono pazienti che sono privi dei marker somatici e che per fissare un appuntamento per prendere un caffè al bar ci impiegano oltre un'ora. Approssimiamo per essere efficienti. Ma anche per paura di sgretolare un pilastro sul quale si poggia un intero castello di congetture. Per cui, è molto più facile dare torto al nostro amico leghista su una qualunque questione, piuttosto che ragionarci bene sopra, scoprire che ha ragione. E forse, magari, iniziare a riconsiderare la propria posizione, rivedere interamente le proprie credenze, ricostruirci un'identità. Roba faticosissima. Roba che piuttosto lasci stare e continui solamente a leggere quei quattro o cinque blog che la pensano proprio come te.

Gli stessi oggetti di cui ci circondiamo, le persone che stimiamo, i nostri feticci personali, devono riassumere l'idea di chi siamo noi, per rafforzare i nostri stereotipi, per aiutare noi stessi ad identificarci. Fa quasi male sapere quanto bisogno noi abbiamo di identificare noi stessi: è un processo cruciale, ne va della nostra sopravvivenza. Dobbiamo sapere quali sono i nostri limiti e quali sono i nostri punti di forza per valutare effettivamente le azioni e gli obbiettivi che vogliamo intraprendere, se non vogliamo affrontare un insuccesso dopo l'altro. Paradossalmente, stereotipiamo noi stessi come e forse più degli altri. Per questo basta un personal trainer che ti fa il lavaggio del cervello e ti convince di essere un vincente per ubriacarti di nuove aspettattive di vita. Ma non fatelo, quella è l'autostrada a scorrimento veloce, e non si impara nulla viaggiando così.

Per cui siamo fieri dei libri che leggiamo, della musica che ascoltiamo. Delle marche che compriamo. "Le persone non comprano cosa fai, comprano perchè lo fai". Vogliamo identificarci con quell'oggetto, con quella mentalità, per sapere che noi siamo fatti così. Quanti di voi si rifiutano di leggere Dan Brown solamente per quello che rappresenta? O non ammetterebbero mai ad un amico di avere un CD di Avril Lavigne nella propria collezione? Non è tanto il giudizio degli altri quello che conta, ma quello che noi abbiamo di noi stessi. Abbiamo degli standard a cui conformarci, per poter far affidamento su di noi. Non vorremmo certo essere una persona del tutto imprevedibile. Come gestire, altrimenti, la propria vita?

Tutto questo casino, insomma, per dire che io sono con Google. Ciecamente con Google. Non proprio sempre sempre, è vero, in fondo sono un maledetto cinico come pochi. Ma la filosofia di un'azienda che dice di se stessa "Non essere cattivo" è un richiamo troppo forte per non rimanerne inevitabilmente attratti. E questa è una decisione che condiziona molte scelte future. Una di queste si chiama Apple. L'altra, Facebook. Prossimamente.

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